Gentile Direttore,

un articolo comparso sul giornale da lei diretto, a firma di Gianmaria Tammaro, dal titolo “Dopo l’abbondanza, la crisi: in Italia chiudono produzioni e vengono cancellate serie tv”, poi rilanciato da Dagospia, potrebbe offrire senza dubbio degli stimoli di riflessione, ma rischia anche di generare pericolose confusioni.

Che cerchiamo qui di dissipare.

Disney+ Italia non ha niente a che fare con la produzione di cinema italiano, è una piattaforma che diffonde la grande library della casa e commissiona serie italiane. Finora quelle trasmesse “Le fate ignoranti”, “Donne di mafia”, “Boris”, di indubbia qualità produttiva e artistica, sono state tutte di successo, in Italia e all’estero, e c’è molta attesa per la serie “I leoni di Sicilia” che sarà trasmessa in autunno.

Se questa piattaforma rallenterà la sua attività, ciò si dovrà alle grandi turbolenze in atto nel sistema audiovisivo americano (di cui gli scioperi sono sintomo) e non certo alle, peraltro positive, vicende italiane. È un esempio dei malintesi in cui si incorre quando si parla del “cinema italiano” non distinguendo la televisione dal cinema: si finisce in una situazione in cui è vero tutto e il suo contrario.

Per capire qualcosa di quello che succede nel sistema audiovisivo italiano è imprescindibile distinguere sempre la parte televisiva (serialità) da quella cinematografica.

La serialità italiana è al di là di ogni dubbio, chiaramente, un successo.

Nel corso di cinque anni è aumentato il volume di produzione e del lavoro, e di dieci volte quello delle esportazioni. Tutti i teatri, così come le strade e le location, della Capitale e di tutte le Regioni, registrano la piena occupazione.

Le serie originali italiane dominano il mercato della generalista (più che in ogni altro paese europeo), ne nutrono i palinsesti anche con gli ottimi ascolti delle repliche, sono elementi essenziali dell’offerta di Sky e delle piattaforme.

L’investimento in produzione è costantemente aumentato e ci sono stati – anche recentissimamente – importanti investimenti esteri in società italiane che producono serie italiane.

Queste sono cifre e fatti e non sono oggetto di opinioni. Se poi ci saranno mutamenti negli orientamenti editoriali dei servizi media non si vede perché società di produzione così apprezzate a livello internazionale non possano essere in grado di rispondere adeguatamente.

Ma l’intervento di Tammaro può contribuire all’apertura di un dibattito sul tema dei risultati in sala del cinema italiano.

È vero che si è registrata qualche criticità. Non per i risultati estivi (film italiani non sono pressoché usciti) e neanche per il dato aggregato, la quota di mercato, che sull’anno si aggirerà intorno al 20%, che non è malaccio. E in fondo neanche per la qualità: il livello dei nostri film, inclusi molti dei debutti, resta nel complesso buono, certo non peggio del periodo pre-covid. Ma si ha la sensazione che il nostro cinema (diversamente dalla serialità) abbia in parte un rapporto difficoltoso col pubblico e che fatichi a mobilitarlo, e che questa difficoltà si rifletta sugli incassi. Non si intende negare questa realtà, e invero la riflessione all’interno delle associazioni di categoria è in corso da tempo, per capire cosa possa aiutare, nel modo di creare e produrre film, a migliorare il coinvolgimento del pubblico nel modo più ampio, e trovare nuove strade e soluzioni.

Questo sarebbe un dibattito serio e utile a cui tutte le componenti del cinema italiano (compresi giornalisti e critici) possono utilmente contribuire.

Benedetto Habib, Presidente produttori ANICA

Chiara Sbarigia, Presidente APA

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