Sono iniziate ieri le riprese di A Star is Born, rivisitazione del musical della Warner Bros. Pictures interpretato da Bradley Cooper (che ne è anche il regista) e Stefani Germanotta, meglio nota come Lady Gaga. Il film si va ad aggiungere alla lunghissima lista di remake che affollano i cinema negli ultimi anni e che hanno sollevato più di una polemica sulla mancanza di originalità autoriale, che riguarda molti campi dell’audiovisivo.

Quando si parla di remake è importante non confondersi con il suo parente stretto, il reboot. Infatti, mentre il primo è un rifacimento abbastanza fedele di un’opera già esistente (esempio: Il Nome del Figlio di Francesca Archibugi rispetto al francese Le PrénomCena tra amici –), il reboot è un “riavvio”, ossia una nuova opera che parte da una preesistente ma ne rielabora i temi. Un caso esemplare è il recente Ghost in the Shell di Rupert Sanders, riadattamento del manga del 1989 di Masamune Shirow (che aveva già avuto un adattamento anime nel 1995, girato da Mamoru Oshii). C’è da dire che spesso i due termini si sovrappongono, sia perché un remake è quasi sempre anche un reboot (salvo casi eccezionali come Psycho di Gus Van Sant, film praticamente ripreso shot-by-shot dall’originale di Hitchcock), dato che un remake deve inevitabilmente adattarsi ai tempi correnti e al nuovo pubblico di riferimento; sia perché, in effetti, un film può essere al contempo un remake e un reboot. Se prendiamo La Bella e la Bestia, live action dell’omonimo film Disney del 1991, troviamo molti aspetti tipici del remake (la trama principale e i protagonisti, praticamente intoccati, così come molte scelte di regia), ma anche innegabili elementi di rielaborazione dei temi principali, che prefigurano un possibile prequel del film.

Nella scorsa edizione del MIA si tenne un panel, intitolato appunto Remake it!, a cui parteciparono Alessandro Usai di Colorado Film, Lorenzo Gangarossa di Wildside, oltre a Raquel Esquivias, di 2 Hour Parking, Robert Darwell, di Sheppard Mulin, l’avvocato Clifford Werber, della GlobalGate Entertainment, moderati da Guido Rud della Filmsharks Intl’. Tutti sottolinearono come il remake fosse una grande opportunità di sviluppo della creatività, una specie di traduzione, in quanto permette la circolazione di storie che hanno avuto successo nella loro madrepatria e hanno le potenzialità per incontrare il gusto del pubblico mondiale. Diversi film di cassetta nell’ultimo anno in Italia sono frutto di un riadattamento (vedi Mamma o Papà, Poveri ma Ricchi e Benvenuti al Sud), e alcuni casi televisivi storici, come Un Medico in Famiglia o il più recente In Treatment, sono la prova che la pratica del remake è usata da tempo e con profitto, tanto che negli ultimi tempi siamo noi gli ispiratori, le matrici, come per Perfetti Sconosciuti, che a breve avrà un remake spagnolo girato da Alex De La Iglesia.

Dove sta la polemica, allora? Molti sostengono che il remake sia ormai abusato, e che il continuo riproporre storie e temi già esistenti sia un segno inconfutabile di una creatività sempre meno vivace e brillante. La critica regge solamente se intendiamo il remake come sinonimo di “copiatura” e l’aggettivo “commerciale” in accezione meramente negativa. È evidente che gli interessi di mercato, specie nel campo audiovisivo, spesso prevaricano quelli artistici, ma ciò non toglie che il valore artistico di un’opera prescinda dal suo tasso di originalità.

Con la scoperta dei neuroni specchio la neurofisiologia ha evidenziato che il cervello dell’uomo sembra programmato per scovare un significato nei calchi, nelle ripetizioni, nei rispecchiamenti. Questo è il motivo per cui Rorschach ideò le macchie simmetriche d’inchiostro, quale mezzo utile a sollecitare l’inconscio del paziente. La letteratura postmoderna ha fatto un vanto di quest’opera di copiatura di modelli precedenti, quasi a voler esorcizzare “l’angoscia dell’influenza” di cui parlò il critico Harold Bloom, cioè il peso castrante della tradizione. E’ stato dimostrato che capolavori indiscussi come Lolita sono forme di plagio, in questo caso di un racconto breve con lo stesso titolo pubblicato molti anni prima da Heinz von Eschwege. Non vi sono due brani identici, ma oltre allo stesso titolo l’eroina eponima del tedesco è anch’essa una ninfetta della quale s’innamora il narratore, un uomo più maturo simile a Humbert Humbert. Ciononostante, il confronto dei due testi fa pensare più a un’imitazione creativa che a un plagio, in cui l’opera successiva migliora e completa la fonte d’ispirazione. La verità è che esistono diversi tipi di plagio, non tutti necessariamente fraudolenti, come sostiene Richard A. Posner nel saggio Il piccolo libro del plagio. L’autoplagio, per esempio, in cui uno scrittore copia brani di suoi scritti precedenti, pratica a cui ricorse anche Kafka in alcune lettere d’amore pressoché identiche inviate a donne diverse.

Un recente scandalo letterario francese riguardava un’accusa addirittura di “plagio psichico” rivolta da Camille Laurens a Marie Daurrieussecq. La prima aveva scritto anni fa un libro, Philippe, dolente resoconto della morte del figlio neonato, e più tardi la Daurrieussecq ha pubblicato un romanzo, Tom est mort, al cui centro c’è ancora la morte di un bambino narrata con parole simili a quelle usate da Laurens. Il “plagio psichico” consisterebbe nel ricalcare non frasi o idee, bensì emozioni. Fra i vari commenti apparsi in seguito sulla stampa francese, uno dei più convincenti è stato quello di Philippe Lançon su Libération, che ha affermato che “la letteratura è un plagio riuscito”, aggiungendo che l’accusa non regge per il semplice motivo che la copia è un racconto molto più scadente dell’originale. Eliot, la cui Terra desolata è chiaramente un arazzo di citazioni varie, seppur accreditate parzialmente nelle note, sosteneva che “i cattivi poeti svisano ciò che prendono e i buoni lo trasformano in qualcosa di migliore o almeno di diverso”.

La questione metafisica della titolarità dell’opera e l’eterno tema dell’identità costituiscono il nucleo centrale di uno splendido racconto di Francesco Burdin, scrittore triestino ingiustamente negletto morto pochi anni fa e che in vita godette della stima incondizionata di una ristretta ma autorevolissima cerchia di critici, come Cesare Zavattini, Giuliano Gramigna Luigi Baldacci, che firmò la prefazione della sua raccolta intitolata Manes. Nella novella omonima non compare mai un nome, sia per i personaggi coinvolti nelle vicende che per le numerose citazioni riportate. Anzi, proprio la parola nome apre e chiude il racconto. L’anonimo protagonista infatti è un commesso viaggiatore con la passione della scrittura, misconosciuto autore di numerosi testi costantemente respinti dagli editori, che si riduce infine a svendere quei lavori, un po’ per campare, un po’ per il conforto di vederli pubblicati sia pure a firma di un altro.

L’impossibilità di sposare il proprio nominativo al destino pubblico dell’opera è il segno della radicale estraneità di quest’ultima all’artefice, il quale, nell’istante del suo compiersi, ne ha già esaurito ogni diritto di paternità, anche puramente formale. All’inizio, cedendo i propri lavori a persone sempre diverse, a volte anche lo stesso pezzo opportunamente manipolato, in una sorta di proliferazione onomastica che cerca di lenire la sofferenza della privazione, questi s’illude di conservare una parvenza di controllo sui testi da cui, di fatto, si separa per sempre. Ma il momento della verità non tarda a presentarsi quando, avvicinato da un agente letterario per conto di un fantomatico cliente, si vedrà richiedere non più un semplice racconto ma un romanzo, o meglio: un capolavoro, per la cui acquisizione non si baderà a spese. Quest’opera esiste, è il romanzo della vita e il frutto di annosi sacrifici, e si intitola appunto Manes. La trattativa è rapida, come il pentimento. Compromessa ogni residua speranza di essere uno scrittore consacrato, il protagonista è preso dalla smania di conoscere l’usurpatore che in sua vece si fregerà di tale titolo. Incontrare il proprio doppio – perché di questo si tratta – non ha mai portato bene.

Era non alto e, sebbene avesse appena superato i trent’anni, di figura corpulenta e sgraziata, con un viso triste e tristemente a me noto.”

In questa descrizione c’è tutta l’incapacità dell’artista di convivere con la sua prosaica incarnazione terrena, e non perché mediocre in assoluto, ma perché, pur nello sfoggio di ogni virtù, irrimediabilmente estranea. Succede spesso così: le cose che più ci appartengono sono quelle in cui meno ci riconosciamo, come la nostra voce registrata, che all’ascolto dell’interessato risulta sempre brutta ed estranea. Tuttavia è a quella voce “sgraziata”, a quel “corpulento” e “triste” alter ego dell’autore, che il mondo attribuirà l’opera (attribuire anche nel senso di rendere tributo). Il protagonista, venendo meno ai patti, tenterà invano di protestare la sua paternità, di ricondurre al legittimo titolare il prodotto dell’ingegno che viene ora così largamente celebrato, e invece lo si caccerà come un molestatore, un mitomane.

Prelevata dal cassetto e consegnata al mondo, resa pubblica, l’opera, ogni opera, è anzitutto apocrifa. E in verità lo è costitutivamente e da sempre, perfino nel segreto di una sua mancata divulgazione; non già per il lettore, ma per l’autore, che tuttavia non sa rassegnarsi né all’una cosa né all’altra. La sua perdita originaria deve essere ratificata coram populo, il suo impossibile recupero intrapreso con ogni mezzo, fino al gesto estremo e disperato, che per Burdin coincide con l’assassinio del personaggio pubblico. Un assassinio esemplare, plateale e suicida, per molti versi simile a quello del William Wilson di Edgar Allan Poe. Burdin rinuncia a qualunque ulteriore ricomposizione. L’unica alternativa all’opera apocrifa rimane dunque, di fronte all’umanità, l’opera postuma.